installazione / performance / arte relazionale

È viva!



progetto: Cecilia Giampaolo, Carlo Maria Cirino e Alessandra Giannandrea
anno: 2009
istallazione: site specific per LUA Laboratorio Urbano Aperto – San Cassiano / Parco Agricolo Multifunzionale, Paduli.


 

Approdo in un luogo inesplorato

L’area rurale dei Paduli è connotata da un paesaggio dominato prevalentemente da estesi e maestosi uliveti. È una terra di pianura compresa tra i centri urbani di Botrugno, Cutrofiano, Maglie, Miggiano, Montesano Salentino, Nociglia, Ruffano, San Cassiano, Scorrano, Supersano, Surano in Provincia di Lecce”[1]. Ecco dunque, condensata ed esemplificata in poche righe, una realtà assai più complessa, assai più difficile da avvicinare di quella che dapprincipio, leggendo queste parole, sarebbe potuta sembrare. Una realtà che, per la sua fondamentale importanza, si è scelto di indagare in questo ultimo e decisivo capitolo e che si andrà dipanando a poco a poco lungo il racconto, come una matassa che lentamente si sbroglia e si distende, assumendo la sua vera forma. Si parlerà insomma di una situazione ben precisa e circoscritta la quale, per quanto paradigmatica e facile da identificare nelle sue linee principali, sarà allo stesso tempo estremamente fragile e complicata da studiare in profondità. Una situazione in grado di riproporre nel suo piccolo microcosmo quelli che, a ragione, possono venire individuati e assunti come i caratteri di una realtà ben più grande e oserei dire addirittura, globale. Un caso di studio che, proprio per le ragioni appena descritte, appare dunque estremamente interessante quale possibile oggetto di ricerca futura. Così, anche se inizialmente la narrazione sembrerà allontanarsi, sfuggendo all’immediata comprensione dei collegamenti e dei fili sottesi; in seguito tutto diventerà più chiaro, più luminoso ed il lettore, appropriandosi di qualche punto fermo, riuscirà persino a tirare qualche conclusione. Ma veniamo a ciò che concretamente ci si appresterà a fare durante questa ricognizione pratica nel reale: in sostanza, si tratterà di mettere a frutto ciò che della realtà si è imparato; ciò che di essa, nei capitoli precedenti, si è cercato di mettere a fuoco. L’arbitrarietà del suo carattere ad esempio; l’estrema variabilità ed illusorietà della sua natura; i metodi e le tecniche per affrontarla senza rimanerne eccessivamente sopraffatti ecc.. Ebbene: grazie a tutta una serie di attenzioni rivolte, in maniera particolare, agli aspetti fondamentali del funzionamento della realtà, tutto ciò potrà essere possibile. La realtà potrà finalmente iniziare a seguire un corso nuovo, incamminandosi verso nuove direzioni e puntando verso nuovi obiettivi. E questo, in maniera particolare, se sarà possibile riuscire ad individuare e a rimarcare una questione ancora più basilare ed importante rispetto a quelle precedentemente elencate e cioè: la questione relativa alla possibilità di scegliere liberamente. Alla libertà che di fronte alla realtà, ciascuno si trova in ogni momento ad avere e che spesso viene ignorata o se vogliamo, colpevolmente taciuta. Dare seguito insomma, ad una profonda esigenza di libertà. E ciò al fine di dimostrare che un’affermazione quale ad esempio: “io sono l’artefice della realtà in cui vivo e se voglio posso cambiarla in meglio”, non è affatto banale o peggio ancora, priva di senso. Anzi, è probabilmente ciò di cui il mondo, in questo momento, sente più la mancanza. In quelle che sono le intenzioni di queste pagine quindi, un simile pensiero, un simile modo di esprimersi, lungi da voler ricordare e ripetere ancora inflazionati romanticismi di varia natura e fattura, potrebbe ed anzi, dovrebbe diventare piuttosto, il vivo modo per ciascuno di condurre la propria esistenza. Riappropriandosi, per così dire, di una verità storpiata e dimenticata quale quella della natura della realtà, al fine di tornare ad essere finalmente padroni di sé stessi e non vittime di scelte e di realtà confezionate da altri. Insegnamenti profondamente pratici come si può vedere, profondamente immersi nella quotidianità e che ben rispondono ai principali problemi riscontrati all’interno della specifica realtà consensuale che si è deciso di esaminare in questo capitolo: quella dell’area rurale salentina dei Paduli. Problematiche e traumi, più o meno antichi, che si è scelto di indagare; sperimentando e provando ad avvicinare realtà nuove che potessero, come dire, funzionare meglio rispetto a quelle già in uso e che perciò, le potessero poi sostituire. E tutto questo cercando di utilizzare l’esperienza o meglio, l’esperimento artistico, quale fondamentale espediente per poter avere accesso a livelli di coscienza altrimenti inaccessibili. Livelli sbarrati e atrofizzati, a causa dell’uso prolungato di modelli di comportamento e di sistemi di credenze sbagliati e non funzionali. Un pretesto, una semplice scusa dunque, somigliante ad una vera e propria esperienza sul campo. Un tentativo per così dire, estivo, di applicare qualche fondamentale concetto all’interno di una particolare situazione storica: quella appunto, degli undici comuni salentini elencati inizialmente. Una realtà che dati i suoi contorni a dir poco teatrali e la sua apparentemente facile sceneggiatura, ben si presta ad analisi e commenti di varia natura, come quelli che qui faranno seguito. Commenti che, è bene sottolineare, pur non pretendendo assolutamente di dimostrare alcunché, potranno ugualmente valere quale utile cominciamento di un necessario percorso di crescita. Un percorso che l’uomo, inteso sia come singolo che come parte di una comunità più grande, dovrà al più presto intraprendere, dovunque egli si trovi. Un cammino difficile che dovrà transitare necessariamente all’interno e all’esterno di ciascuno; attraverso la conoscenza profonda di sé quindi, e quella sempre più indispensabile degli altri. 

     

Riconoscimento dei problemi del luogo*

Il territorio nel quale ci troviamo a portare avanti la nostra indagine è magico. Ma l’area rurale, vero oggetto del nostro interesse, lo è in modo del tutto particolare. Si tratta, come dicevamo all’inizio, di una distesa di migliaia di piante di olivo, molte delle quali con più di cento anni di storia alle spalle. Un oliveto maestoso, imponente; un luogo che gli abitanti dei comuni limitrofi chiamano, spesso con tono affatto dispregiativo, Paduli. E più raramente indicano anche come bosco di Belvedere o semplicemente, bosco Belvedere. Ma, andiamo per ordine. Com’è facilmente intuibile, il termine paduli (così come, dal toscano, il sostantivo padule ad esempio) denota appunto una vera e propria palude. E questo perché tutt’ora in inverno, solitamente dopo qualche giornata di pioggia ininterrotta, buona parte dell’oliveto si allaga ed il terreno si trasforma in un acquitrino. Una palude impraticabile dunque, che ancora oggi scatena le ire e i malcontenti degli abitanti e dei possidenti; i quali spesso, a causa proprio di questa situazione, sono soliti definire i Paduli, “maledetti”. Dando origine di conseguenza alla locuzione tipica del posto, che recita così: <<maledetti Paduli>>. Non meno importante rispetto a questo appellativo però, è il secondo, che già in precedenza avevamo indicato. Da parte sua infatti, bosco di Belvedere sembra fare capo ad una vicenda, se possibile, ancora più interessante e complessa della precedente. Un intreccio che vede affondare le sue radici storiche sin dal lontano 1464, anno nel quale una serie di cartografie registrava, per la prima volta, l’esistenza del bosco in questione. Quello del <<bosco di Belvedere>>, se vogliamo, è un modo di rivolgersi all’oliveto poco frequente, poco utilizzato; un’abitudine che, ad oggi, continua ad interessare solamente poche persone, per lo più anziane. Un nome, sedimentatosi nella tradizione popolare, che vuole fare direttamente riferimento all’antica riserva di caccia del Principe di Tricase, ultimo proprietario del bosco. Riserva che, dalle cronache, un tempo sorgeva rigogliosa proprio nella zona in cui ora vengono coltivati, a perdita d’occhio, solamente olivi. Non sembra affatto difficile comprendere come l’originaria denominazione, mano a mano che il bosco del Principe scompariva per lasciare spazio alle nuove piantagioni, venisse perduta nel ricordo; mentre tra la gente che si trovava a coltivare quella terra difficile ed acquitrinosa, si venisse affermando, sempre più velocemente, la denominazione spregiativa Paduli. Se vogliamo insomma, è la palude ad essere la chiave di tutto. È essa che, poco alla volta, ha divorato il bosco; inghiottendo persino l’appellativo col quale ad esso ci si riferiva, causando dolore ai corpi e alle menti di chi, per necessità, è stato costretto a lavorarvi dentro. L’antico bosco di querce (Quercus Fraineto) e lecci (Quercus Ilex) che un tempo ammantava la zona e la cui origine, dagli studi fatti, viene fatta risalire addirittura al periodo post-glaciale, non era assolutamente colpevole di nulla. Toponimi quali ad esempio: Castagna, Fontana e Porcarizza ne sono l’evidente dimostrazione. Essi stanno ad indicare infatti, la presenza di allevamenti, d’acqua e di ricchezze che il bosco offriva ma che già, dalla metà del ‘700 in avanti, erano iniziati pericolosamente a venire meno. Disboscamenti indiscriminati e dissennate pratiche incendiarie erano cominciate e con esse si erano conseguentemente aggravati i problemi di reflusso delle acque e di impaludamento del terreno. Verso la seconda metà del 1800 poi, l’ultimo atto della terribile vicenda: il principe di Tricase, dopo una lunga causa intentata con i comuni limitrofi, si vide costretto a dividere il bosco in quindici parti e così, una dopo l’altra, anche le ultime parti di esso caddero distrutte, sempre per lasciare spazio a piantagioni d’ulivo. Cosimo De Giorgi, nel 1877, riporta con queste parole la situazione dal suo punto di vista: non è senza il massimo dolore ch’io osservo di anno in anno cedere atterrate al suolo quelle querce maestose che hanno sfidato per tanto tempo le ingiurie del tempo, dell’atmosfera, degli uomini e degli animali. La falce e la mannaia livellatrice del boscaiolo seguono intanto, inesorabili su questa via di distruzione. Ebbene: sulle parole ormai vetuste dello scienziato De Giorgi, proviamo ora a riassumere la situazione che fin qui si è andata delineando; affinché si possa proseguire poi, verso una possibile soluzione della questione. Per prima cosa allora, l’oggetto della nostra indagine: i Paduli. Termine con il quale, chiariamo, ci si vuol riferire ad un’area rurale estesa per circa cinquemila e cinquecento ettari in provincia di Lecce. Un’area che se oggi troviamo quasi interamente piantata ad ulivi, un tempo fu invece culla del bosco di Belvedere, andato poi completamente distrutto proprio per fare spazio a detta coltivazione. I Paduli, si potrebbe dire insomma, non sono altro che un immenso oliveto; una enorme piantagione che, ogni anno, durante i pochi giorni di pioggia torrenziale, si riempie totalmente d’acqua trasformandosi in una palude. Una palude ostica, difficile da lavorare e quindi, da sopportare ed il cui nefasto ricordo ancora influenza terribilmente la popolazione locale, la quale guarda ad essa con disprezzo e spesso, con profonda rassegnazione. Ma proseguiamo ancora nella descrizione del luogo e rivolgiamo ora la nostra attenzione al perimetro esterno dell’area d’interesse, dove si trovano gli undici comuni salentini che si affacciano sugli ulivi: Botrugno, Cutrofiano, Maglie, Miggiano, Montesano Salentino, Nociglia, Ruffano, San Cassiano, Scorrano, Supersano e Surano. Ebbene, quel che certamente siamo in grado di affermare riguardo ad essi è che la maggior parte dei proprietari terrieri della zona vi risiede stabilmente. E questo non è affatto difficile da motivare: quasi ogni famiglia del posto infatti, possiede delle piante di olivo ed esse bastano al suo fabbisogno. Chi dieci, chi venti piante o più, quasi tutti hanno delle proprietà all’interno dei Paduli. Ecco perché, a parte qualche grande proprietario, la maggior parte dei terreni è ancora, se così possiamo dire, a conduzione familiare. Ed ecco perché quelle stesse famiglie, spesso e volentieri, risiedono proprio nei vicini comuni. Inoltre, come forse già si è potuto intuire, è bene chiarire che le proprietà non sono divise in appezzamenti o in ettari di terreno bensì, ad alberi veri e propri. Ed i confini tra una proprietà e l’altra non sono segnati da recinzioni, steccati o quant’altro ma appunto, dalle fronde di quegli stessi alberi. Almeno teoricamente dunque, tutti questi possidenti e al contempo cittadini sono anche gli stessi che dovrebbero sentirsi comunemente responsabili di quel che accade all’interno del bosco, del suo buon governo; come pure delle scelte che a suo carico potrebbe essere necessario prendere. Tutto questo però, non accade e all’orizzonte non si prospetta nulla di idilliaco, tutt’altro. I Paduli sono là, abbandonati a sé stessi. Lasciati alla mercé e alla furberia di chi per primo diserba, avvelena o distrugge. Dimenticati, essi stanno come in attesa della fine; di una prossima e definitiva distruzione che arrivi e se li porti via per sempre. È quantomai evidente dunque, che a svilupparsi in quei luoghi non potrà essere nulla di buono, di positivo o fruttuoso. E che ad aleggiare nell’aria continuerà ad essere soltanto una forte contraddizione, una temibile incoerenza capace di annientare qualsiasi azione positiva. Ebbene: proprio riguardo all’incoerenza di questa situazione sentiamo il dovere di formulare alcune domande. Quesiti ai quali, successivamente, cercheremo anche di rispondere, ricollegandoci a ciò di cui abbiamo trattato nei precedenti capitoli. Per prima cosa chiediamoci allora, come sia mai stato possibile, per una terra che all’epoca del bosco di Belvedere era ancora estremamente ricca di risorse, di ricchezze e di bellezza, ridursi in un tale stato di abbandono, di degrado e soprattutto, di disamore. Chiediamoci cosa è accaduto alle querce, ai lecci, agli animali e persino agli insetti: come mai sono spariti. Come mai, in certe zone, non avvertiamo più alcun ronzio, alcun movimento nell’aria o sul terreno; quasi ci trovassimo in luoghi nei quali a risiedervi fosse soltanto una quiete innaturale, una mortale immobilità? A cosa hanno portato gli incendi indiscriminati, i disboscamenti e la conseguente coltivazione intensiva di olivi su un territorio di oltre cinquemila e cinquecento ettari? A cosa ha portato l’uso criminale di diserbanti e pesticidi che tutt’ora continuano ad avvelenare l’acqua uccidendo ogni forma di vita? Ecco, queste sono solo alcune delle domande cui andrà la nostra attenzione. Ad esse però, non daremo una risposta consueta; non risponderemo punto per punto, ordinatamente. Non andremo a pescare nozioni da materie che, oltre a non competerci, possono soltanto fornirci delle risposte utili nell’immediato. Risposte che in sostanza, non sono altro che rammendi malamente cuciti su rotture ben più grandi. Quel che si cercherà di fare piuttosto, sarà applicare ad una situazione reale ciò che della realtà si è riusciti a catturare nel corso di queste pagine. E questo perché, è nostra profonda convinzione, cambiare le cose significa, prima di tutto, accorgersi che la realtà non è un mare in tempesta nel quale siamo stati abbandonati una volta venuti al mondo; ma se vogliamo, un abito che ciascuno può confezionarsi come meglio gli aggrada: tagliando, imbastendo e cucendo, come e dove preferisce.

Carlo Maria Cirino

 

[1] LUA – Laboratorio Urbano Aperto, Perché i Paduli, 2009

     [materiale rintracciabile presso: www.laboratoriourbanoaperto.wordpress.com]

* Le informazioni riguardanti il bosco di Belvedere sono state raccolte oltre che da testimonianze dirette

   degli abitanti del luogo, anche dai diversi siti web dei comuni interessati

   (ad esempio: www.comune.supersano.le.it)

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